MUMBLE MUMBLE è una rubrica di Mirror Mirror in cui troverete interviste a persone che lavorano nella moda e ne stanno delineando i confini, ognuno a modo suo. Una volta al mese viene ospitata una persona che stimo, la cui idea di moda si avvicina alla mia. Ci fermeremo e faremo due chiacchiere in un mondo che corre veloce.
Tempo fa un’amica mi raccontava dell’azione politica e femminista del gossip, un po’ per farmi sentire bene perché a me il gossip piace molto, un po’ perché effettivamente è un modo per raccontare la realtà, mettendola in discussione con uno strumento ambiguo, ma capace creare comunità e connessioni. Qui non si farà gossip vero e proprio, ma del gossip ci sarà quel grado di intimità e leggerezza sulle cose di cui la moda oggi ha molto bisogno.
✩ °。⋆ Jacopo Bedussi ⋆。° ✩
Jacopo Bedussi è il sesto ospite di MUMBLE MUMBLE. Jacopo con le parole lavora e guadagna denaro - la cosa più importante di tutte. Le mie amiche lo chiamano father e l’ho voluto qui sulla mia mensola perché leggere le sue parole è facile e divertente e ti sembra di capire tutto e che scrivere sia facile. Jacopo è stato Style editor di GQ, e ora è Global Brand Content Manager per un brand di profumi e collabora con Rivista Studio e DUST Magazine. Mischia riferimenti pop e di nicchia in modo fluido e ti fa chiedere perché ancora esiste chi parla di cultura alta e cultura bassa. Usa tutte le parole, come chi possiede una coerenza interna resistente, o chi ha imparato a prendersi poco sul serio (ma forse non c’è distinzione tra le due categorie). A me ricorda un misto tra Tondelli, un cartone animato, Arbasino e Tumblr, ed è l’unica persona che scrive in questo settore che mi fa ridacchiare mentre lo leggo. Di Jacopo abbiamo bisogno per ricordarci la schiettezza senza pretese di riconoscimento e santificazione, e che ingerire informazioni va bene, ma solo quando riesci a dare a quello che leggi e vedi una coerenza, non necessariamente legata alla tua esperienza. Mi sono immaginata i professori delle scuole medie come Jacopo: ci sarebbero meno adulti frustrati, più ironia, un lessico più ampio, insulti fantasiosi, menefreghismo verso ciò che non si merita attenzione, dedizione per quello che davvero ci rende noi stessi.
Se dovessi vivere in un solo abito/look, quale sceglieresti?
A parte quando esco e mi piace fare un po’ la scema di solito per andare in ufficio tutti i giorni mi vesto con una precisa icona in testa che è Dottor House.
Altrimenti direi il Big Suit di David Byrne in Stop Making Sense.
Consigli su come indossare un maglione nero.
Indossarlo lontano dai gatti.
Cosa diresti ora al te stesso che ha iniziato a lavorare nella moda?
Il me stesso che ha iniziato a lavorare nella moda era probabilmente molto più intellettualmente onesto di quanto non lo sia io ora dopo 15 anni. Non era un’onestà consapevole, era un’onestà un po’ stupida figlia dell’ignoranza rispetto a un sistema molto più complesso di quanto non vedessi o anche solo immaginassi allora. Era forse in un certo senso un imbarazzante mix di spocchia e naïveté. Adesso credo di essere più bravo, ma anche più noioso e più impantanato in una serie di sovrastrutture e autocensure che vengono dall’esperienza e anche da un discreto amore per il denaro. Quindi forse al me stesso di quando ho iniziato direi solo di tirarsela di meno, ma di non mollare il colpo.
Qual è l’abito nel tuo armadio che hai consumato di più?
Ci sono diversi capi che indosso allo sfinimento: Pantaloni neri Dickies 874 Original, una camicia oversize a righe azzurre marca Gianni Versace presa in un vintage per 5 euro non mi ricordo neanche quanti anni fa, un gilet nero in suede con le frange preso sempre in un vintage che a un certo punto ho regalato perché non se ne poteva più, dei New Wave Trouser neri di Celine, ultimamente anche dei texan boots marroni intarsiati tamarrissimi, e contro la mia volontà un abito color petrolio di Prada che metto a tutti i matrimoni a cui vengo invitato e che nell’ultima estate sono stati troppi molti. E la maglietta dei Pulp che ho comprato al concerto di Manchester l’anno scorso.
E quello che compreresti di nuovo?
Delle sneaker bianche con gli strap di Acne. Ma anche la camicia di Gianni Versace la ricomprerei anzi sto pensando da un po’ di portarla da un sarto per ottenerne dei cloni. Anzi se qualcuno che legge la newsletter conosce un bravo camiciaio con dei prezzi non criminali me lo consigli please. E la maglietta dei Pulp che ho comprato al concerto di Manchester l’anno scorso.
Qual è il tuo ricordo più bello legato alla moda?
Vorrei rispondere con una citazione di Edna Mode de Gli Incredibili che dice ‘Non guardo mai indietro tesoro, mi distrae dal presente’. Ma in realtà forse entrare per la prima volta al Plastic a 17 anni nel 2005 e vedere quei pantaloni skinny e quelle scarpe a punta e il trucco sugli occhi e sentire in modo roboante e luminoso che il mio posto esisteva e che c’era un mondo da scoprire e da vivere e da ballare e da indossare. O anche una volta tanti anni fai quando scrivevo per un sito che si chiamava Gay.it e mi chiesero di fare una specie di pezzo-review sull’ultima campagna di Gucci e si era in piena frenesia Alessandro Michele e scrissi questa roba e non so come poi un sacco di gente mi scrisse e mi fece i complimenti e poi da lì saltarono fuori conoscenze e amicizie e collaborazioni e lavori e fu la prima volta in cui pensai che forse le cose che pensavo potevano essere interessanti. Ma soprattutto cominciai a guadagnare del denaro grazie a quello che pensavo e il denaro è la cosa più importante di tutte.
Cosa consiglieresti a una persona giovane che vuole studiare e lavorare nel mondo della moda?
Consiglierei di coltivare la capacità di detestare. E le/gli consiglierei di detestare le cose che detesta in modo affilato, ostinato e informato. Il mondo della moda non è un sistema coeso o coerente. Il mondo della moda può riguardare tanto chi fa trend forecasting per i tessuti quanto chi scrive di moda su un giornale o in una newsletter. Quindi un’altra cosa che consiglierei è di capire cosa veramente si desidera fare, e anche, pragmaticamente, di chiedersi se quello che si desidera fare coincide con ciò che si è brav* a fare. Perché se ti piace tantissimo fare una cosa ma sei una sega, e tu lo sai se sei una sega oppure no, se sei un* fissat* che di quella roba lì ci vive e ci respira oppure se quella roba lì la vedi come un mezzo per la notorietà o il denaro o uno stile di vita, ecco se sei una sega allora un consiglio molto sincero è quello di lasciar perdere. E però, al contempo, se dovessi dare un solo consiglio non richiesto alle nuove generazioni sarebbe sempre e solo questo: siate molto bravi in quello che fate, ma non fatelo mai gratis.
Due brand interessanti oggi: uno grande e uno emergente. E perché li reputi interessanti.
Prada per campanilismo ed età anagrafica e anche perché nonostante io mi stia trasformando sempre di più in una lucertola cinica e disincantata che quando si guarda allo specchio o si rilegge vede e sente Vittorio Feltri, continua ad emozionarmi quell’approccio umanistico e politico alla moda e all’enorme quantità di denaro che la moda ha fruttato alla Signora Prada e al di lei consorte e che i due hanno restituito alla città e al mondo in una forma di responsabilità sociale che in un certo senso mi commuove perché mi fa pensare a un mondo antico popolato da nomi come Olivetti o Pirelli in cui l’industria ricercava la dignità attraverso la diffusione di cultura e di pensiero.
Jordan Luca, che non sono veramente emergenti perché essendo molto molto bravi sono già emersi eccome, ma io sono una vecchia ciabatta e se c’è qualcosa di nuovissimo magari me ne accorgerò tra due anni, comunque dicevo Jordan Luca perché fanno della moda che ti fa venire voglissima di scopare e mi sembra una gran gran cosa.
Perché scrivere di moda quando ci sono le immagini, i video, i tiktok, i podcast?
Uhmmmmm in realtà non vedo opposizione tra lo scrivere, i video, tiktok o i podcast, cioè sono tutte cose che vanno prima pensate e quindi in un certo senso scritte, anche se non parola per parola come sulla carta. Però il processo che porta al prodotto finito secondo me non è così diverso. Rispetto alle immagini invece per me è abbastanza semplice cioè nel senso che le parole servono a smontare le immagini e capire cosa c’è dentro. Comunque perché non lo so, forse perché scrivere mi viene decisamente meglio che parlare.
10. Pagina X/Twitter da seguire.
Derek Guy (@dieworkwear) che scrive di menswear in modo divertentissimo e fico ed è l’esatto opposto di tutte quelle terrificanti robe old money.
Coup de grâce (@coupdegrace_co) che è un profilo che posta foto di vecchie sfilate molto fighe che ti fanno venire la nostalgia e voglia di vestirti bene e spendere capitali su Vestiaire Collective.
Che libro stai leggendo in questo periodo?
Sono ancora in fase di ingarellamento estivo con la trilogia del Detective Hodges di Stephen King e poi sto leggendo B di Filippo Ceccarelli che è un mattone spassosissimo biografia di Silvio Berlusconi che è ovviamente un kink. Berlusconi si vestiva malissimo.
Cosa vorresti trovare nel giornalismo di moda che non c’è o che, se c’è, è affrontato in modo approssimativo/insufficiente?
Vorrei trovare serietà in chi scrive, che non vuol dire per niente essere stiff o scrivere norme e tributi, ma vuol dire avere rispetto di chi legge scrivendo di cose che si sono ben lette e studiate che vuol dire anche soprattutto non pigliare per il culo chi ti legge.
Poi vorrei trovare onestà e indipendenza e sincera rabbia, ma questo nell’editoria istituzionale non può esistere proprio per come l’editoria è strutturata, ma questa è una storia lunga e pure raccontata abbastanza da essere diventata noiosa. E poi vorrei trovare dei lettori visto che a nessuno frega un cazzo di quello che scriviamo lol.
Diciamo che il mio sogno sarebbe che qualcuno recensisse una sfilata con la libertà, l’acume e lo sprezzo del pericolo con cui il critico gastronomico del Guardian Jay Rayner recensì nel 2017 il ristorante stellato Le Cinq di Parigi. Un pezzo che chiunque voglia fare il critico di qualunque cosa dovrebbe leggere. Giusto un antipasto, per descrivere la sala, scrive: “The dining room, deep in the hotel, is a broad space of high ceilings and coving, with thick carpets to muffle the screams. It is decorated in various shades of taupe, biscuit and fuck you. There’s a little gilt here and there, to remind us that this is a room designed for people for whom guilt is unfamiliar. It shouts money much as football fans shout at the ref. There’s a stool for the lady’s handbag. Well, of course there is.”
Gossip girl o Sex and the City?
Gossip girl non l’ho mai visto, quando ero giovane Sex and the City mi piaceva poi mi è capitato di rivederne qualche episodio recentemente e penso sia invecchiato in modo penoso tipo che visto oggi sembra scritto da J.K. Rowling e Carlo Giovanardi insieme.
Cosa possono dare i ragazzi di oggi alla moda? E cosa può dare la moda a loro?
In questo preciso momento la moda a loro secondo me può dare ben poco, ma di buono c’è che la moda è come l’erba cattiva e alla fine non muore mai e anche se adesso è abbastanza una merda poi come mille altre volte a un certo punto succederà che di punto in bianco sbam e inizia qualcosa di nuovo e vederlo nascere sarà bello ed emozionante.
Cosa possono dare oggi i ragazzi alla moda purtroppo anche qui devo dire poco, perché la moda ha fatto in modo di diventare impermeabile ed inaccessibile e quindi i ragazzi possono dare alla moda solo ciò che la moda vuole da loro. E questo è un peccato.
Tre regole che ti dai quando scrivi un pezzo di moda.
Sapere di cosa stai parlando e se non lo sai imparalo. Cerca di essere divertente. Non masturbarti con le parole.
Cinque aggettivi per descrivere la moda in Italia oggi.
Deprimente. Ostentatrice. Reazionaria. Pavida. Sfiduciata.
Una parola per la moda che hai vissuto e non c’è più, una per quella che stai vivendo, e una per quella che ti immagini nel futuro.
Per la moda del passato, anche non così remoto, direi travestimento. Perché la moda che ho vissuto e il motivo per cui la moda mi ha fatto innamorare era proprio questa manifestazione di alterità possibile. Vestirsi era sempre e comunque tra-vestirsi. Trasformarsi. Ingannare e ingannarsi. In questo spazio c’era tutta la fascinazione che la moda emanava. In un gradiente di ipotesi in cui ci si poteva fingere altro.
Per la moda che sto vivendo direi identità. Che credo sia una parola interessante e insieme un concetto pericoloso. Un concetto che la parte più progressista di noi ha peraltro secondo me gestito malissimo negli ultimi, diciamo, 10 anni. E che è anche la risposta conservatrice e normativa a quell’idea di travestimento. So di fare un discorso rischioso e quindi prendo in analisi solo la comunità che mi riguarda: la recente militanza LGBTQ+ puntava a incasellare con le parole le possibili espressioni identitarie esistenti in una sorta di tassonomia impossibile. Come una grande tabella in cui trovare lo spazio per maschio->etero->cis / maschio->gay->trans etc etc e poi a seguire infiniti sottoinsieme in cui si intrecciano provenienza, razza, cultura, religione e così via. E pur con le migliori intenzioni mi pare che non ci si sia resi conto che questo approccio tassonomico e normativo è sostanzialmente un atteggiamento di destra in quanto prescrittivo. Tant’è che nella loro forma perversa gli stessi strumenti retorici sono alla base del discorso fascista delle destre occidentali: l’identità italiana (e che dolore quando si pensa che è stato il titolo di una delle più belle mostre del secolo scorso forse al Centre Pompidou di Parigi), le radici, ma anche l’America che deve essere great again e tutte queste stronzate.
La moda che il suo tempo non lo plasma ma lo rispecchia purtroppo ha seguito lo stesso percorso. E quindi oggi quello che propone non è più travestimento, alterità, possibilità, visione, evocazione. Ma offre affermazione, certificazione, status. E quindi il perimetro della proposta della moda coincide col perimetro della realtà e dello status quo, soffocando tutto ciò che io nella moda trovo bello e interessante: lo spaesamento, l’alternativa, la provocazione. Perché ciò che di bello la moda sa fare è far germogliare idee ed entusiasmi ed estetiche in quello spazio grigio, in quella zona liminale che sta tra la realtà delle cose, delle notizie, delle vite fatte di quotidianità e di lavoro e anche di sofferenza e i confini labili della creatività, della rabbia, del ridicolo anche.
Per la moda del futuro non so se immaginare o piuttosto sperare nella parola rarefazione. Sarebbe bello se la moda diventasse guerriglia e autonomia. Se in un certo senso si smaterializzassero le monolitiche presenze che oggi reggono i fili del mercato e il senso stesso della parola moda cambiasse, se il sistema diventasse un eco-sistema aperto e permeabile, in cui la moda non ha più solo a che fare con oggetti fatti di tessuto da indossare ma con proposte di modi di essere e di apparire (apparire è importantissimo e bellissimo). Paradossalmente mi pare che negli ultimi 30 anni internet abbia cambiato quasi tutti i sistemi che riguardano i consumi culturali in modo stravolgente tranne proprio la moda, di cui ha cambiato la parte commerciale senza intaccarne l’essenza concettuale.
Qual è l’immaginario, il film, la sfilata o l’abito o l’artista che per te rispecchia o racconta al meglio i nostri tempi?
Due.
L’orrenda versione Netflix del Talento di Mr Ripley che è l’esempio perfetto di come i prodotti culturali middlebrow oggi siano kitsch nell’interpretazione che ne dà Tommaso Labranca, ossia “sinonimo di "pulizia etnica", il tentativo di eliminare le brutture della vita, per elevarsi in un universo di ricchezza e di prestigio.”
Cioè esiste nelle proposte culturali un ossessivo tentativo di elevare, di estetizzare, di eliminare il basso, il prosaico, il volgare. Quel bianco e nero argenteo di Tom Ripley di Netflix non ha un cazzo a che vedere con lo stupendo romanzo di Patricia Highsmith, è solo una porcata creata da cervelli intrinsecamente piccolo-borghesi che hanno cercato di realizzare un prodotto ‘fine e di classe’ ma che in controluce tradisce tutto il suo spirito parvenu. Questa roba nella moda di oggi c’è a pacchi, tutto è sleek, pulito, preciso, rassicurante, elegante, elevated. E non sa per l’appunto di un cazzo, perché taglia fuori tutta una serie di registri che sono invece fondamentali per la tridimensionalità di una proposta: il brutto, lo sporco, il respingente, il burino, il pericoloso, il puzzolente, il marcio, il divertente, il comico, l’ironico, il profondo etc. etc.
Un’altra cosa che racconta i nostri tempi è stata anche la reazione allo show di debutto di Seán McGirr da Alexander McQueen. Uno show che io ho trovato acerbo ma geniale, in cui si mescolavano proprio tutti i registri sopracitati, era barocco, rude, ironico (Orinoco Flow!!!!!), audace, sbagliato, vivo e secondo me anche una eccellente celebrazione dello spirito di Alexander McQueen. E invece è stato mangiato vivo, si è gridato alla lesa maestà, all’offesa al decoro e all’onore, ci si è attaccati alle tende perché McGirr non ERA (ancora l’identità) Lee McQueen, forse senza rendersi conto che un morto non può disegnare una sfilata, improvvisamente si è cominciato a fare santini di Sarah Burton, una che fino a due mesi prima veniva considerata dalla vulgata tutta una delle designer più soporifere del globo terraqueo. Ed ecco, è proprio in questo scollamento tra autoproclamato progressismo e invece reazioni iper-conservatrici che credo si possa leggere tutto ciò che nella moda oggi non funziona. E quindi un sistema che dovrebbe produrre futuro non fa altro che guardare con nostalgia a un qualunque passato, perché chi quel sistema lo regola anche in minima parte preferisce crepare piuttosto che mollare la poltrona della rilevanza.
Go and find Jacopo in the web and in the world!!! ಇ.
4ever chit-chatting,
xx C
Bellissimo!
Favoloso! Lo leggerei e rileggerei senza sosta!