Mia mamma ha dei mocassini con il tacco basso, la fibbia e la pelle effetto bleached, che un giorno mi aveva prestato e con cui ho pestato una gomma da masticare a cui si erano poi appiccicati capelli e sporcizia - un risultato disgustoso. Un anno dopo mi ero comprata dei vecchi mocassini di Miu Miu, sempre con la fibbia e la punta squadrata, ma con il tacco alto. Presi su Vinted e recuperati in una cartoleria fuori Amsterdam Oost, li ho indossati al primo date con un amore ritrovato e rovinati sotto le piogge di novembre del nord. Questi sono i ricordi personali e poco interessanti, particolari (nel senso primissimo del termine) che ho avuto guardando la sfilata di Prada, in cui ho rivisto questi oggetti che possiedo.
Poi sono stata bombardata dall’algoritmo, lo stesso che faceva da flusso tematico della sfilata, che ha generato l’analisi del duo ormai simbiotico di Miuccia Prada e Raf Simons. La sfilata, hanno detto, era un’analisi del caos di immagini condivise nell’algoritmo che ci ritornano indietro moltiplicate, sempre uguali e diverse. C’erano gli elementi che hanno caratterizzato Prada negli anni, ma riproposti: dalle platform del 2011, ai tacchi altissimi con plateau del 2013 e quelli fiammati del 2008, ai tubini e borse bauletto e cappotti con collo di pelliccia degli anni Novanta. Il tutto mescolato a occhiali alieni e a cappucci, gonne lucide con grandi aperture circolari, visiere viniliche a coprire lo sguardo, un rimando alla space age che negli anni Sessanta aveva fatto sognare e divertire i vecchi essiccati di oggi. Questo caos di elementi che narrano storie diverse, resi organici dallo sguardo analitico dei due, hanno fatto impazzire la mia bolla social, quel famoso algoritmo, in cui immagini d’archivio sono state accostate a quelle recenti della sfilata che a loro volta sono state accompagnate da foto di dettagli per far vedere che i capi si assomigliano molto oppure che no sono diversi anche se per poco. Un delirio di immagini, oggetti reali e finzioni, proprio come le cinture e i colletti trompe l'oeil che già avevamo visto nella collezione uomo ss25.
In questo processo di meta-archiviazione social scatenato dalla collezione, che già era riflessione sull’archivio e sulla libertà dell’individuo di giocarci senza cadere nel previsto, giace la genialità di Prada. Il mio Vinted è pieno di pezzi di Prada cercati ossessivamente e salvati per quando avrò soldi (mi faccio pena), e mi chiedo: i pezzi ricreati nella collezioni aumenteranno di prezzo ma il loro valore culturale, la loro aura (intesa come la intendeva Benjamin e non tiktok) diminuirà? Che valore ha l’archivio se può essere ricreato continuamente e se ciò che lo rende tale, il suo essere simbolo di un’epoca finita e dunque irripetibile, può essere clonato?
Tutto questo mi manda in visibilio per due motivi. (i) Questa operazione appare come una mano tesa ai malati d’archivio (latifondisti con la gotta di quest’epoca della moda) che aiuterà il fatturato già alle stelle del gruppo Prada, ma è, in realtà uno scherzo, una provocazione. Ed è altrettanto divertente sapere che chi si deve porre queste domande mai se le porrà e andrà avanti a collezionare per poi rivendere - a parole, per far avanzare il proprio potere culturale, o a tutti gli effetti, con guadagno, su ebay Vestiaire Vinted. (ii) L’archivio riproposto diventa un anti-archivio, un archivio femminista in cui il concetto di oggettività viene smantellato e l’ossessione del secolo per l’archivio, tanto criticata da Foucault, viene curata. Le epistemologie femministe dell’archivio demistificano il suo essere statico e intoccabile e lo presentano come un organismo mutevole, ancorato al presente, in cui, volente o nolente, l’archivista impone la propria soggettività utilizzando metodi e canoni di archiviazione che sono propri di un’epoca specifica, quindi soggetti a uno sistema valoriale definito. Questo sguardo rivela la collezione anche nel suo valore fortemente politico, in un’epoca di conflitti glaciali e guerre disumane in cui il valore testamentario delle immagini e dell’archivio sbiadisce, in un processo di destoricizzazione e decontestualizzazione che si svolge irrefrenabile su internet e sui social.
Quest’ultima collezione di Prada è tutte noi schiacciate dall’algoritmo, dalla violenza sottile e implacabile delle immagini digitali e dagli abiti che da codici sociali si sono tramutati in codici binari. Prada presenta una femmina che tutta a posto non è, che combatte il futurismo maschilista con gonne lucide che non si sa se si piegano e ti permettono di sederti ma non è questo il punto perché la donna di Prada sta in piedi oppure distesa, a discutere di epistemologia o tramortita a terra dalla vita. Le vie di mezzo, diceva San Paolo (che un pantalone con cintura trompe l’oeil l’avrebbe pure indossato come simbolo di trascendenza al reale), ci fanno vomitare.