Il giornalismo di moda: una questione privata?
Il futuro dell'informazione e commons delulu
Poco più di un anno fa scrivevo su Rivista Studio dello stato della critica di moda nei nostri tempi digitali, social e proni alle dicotomie forzate. Poco è cambiato in un anno, anzi, il discorso attorno all’informazione nella moda si è intensificato, ha perso di significato nella sua stagnazione, è ritornato, sempre urgente, sempre uguale.
Scrivere di moda è come mangiarsi un panino, se lo fai è perché hai fame. Non è niente di speciale: come ricordavo nell’articolo, Femke De Vries ci fa presente che noi non indossiamo gli abiti su cui a lungo ci intratteniamo a parole, e 1Granary calca la mano sottolineando che “it’s your job to sell a dream, not to live one.” La fame di cui parlo è ovviamente metaforica, perché la realtà è inversa: hai fame perché scrivi di moda. Arrivare a fine mese è un mestiere di equilibri, calcoli, aiuti famigliari e buffet a eventi in cui arraffare la cena.
Sempre 1Granary ha recentemente dedicato un articolo al permalancing, ovvero la pratica sempre più comune, non solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, di lavorare in modo fisso e costante per un cliente unico, con un contratto però da freelancer. Qui in Italia si chiama partita iva, e insieme al teorico beneficio della flessibilità e dell’indipendenza, si accompagna alla mancanza di tutele di cui godono di solito i dipendenti aziendali (maternità, giorni retribuiti di malattia, benefit aziendali, ferie). Milano culla e bacchetta con cura i propri permalancer, come il più rodato dei manipolatori.
Già nel 2018, Silvio Lorusso teorizzava un’altra parola deliziosa per la moda: Entreprecariat, lo stato di fragile equilibrio tra imprenditoria e precariato, una condizione fomentata dall’iper produttività contemporanea, la disoccupazione crescente, l’arretramento dello stato sociale, l’imperativo dell’ottimismo e la conseguente demonizzazione del fallimento.

In questi ultimi anni, nonostante il lavoro da giornalista freelance sia poco gratificante sotto molti aspetti, si è vista una fuga di firme da grandi testate verso piattaforme come Substack, pensate principalmente per singole voci (penso a Emilia Petrarca, prima Senior fashion writer per The Cut, che ha aperto la newsletter Shop Rat, e a Amy Odell, creatrice di Back Row, un tempo editor di Cosmopolitan). Spesso però per emergere e calmare la fame non metaforica di cui parlavo prima è necessario essere già affermati ed essere un personaggio pubblico con un seguito.
Si è discusso anche del sospetto crescente nei confronti della figura degli influencer, definendo il futuro prossimo come un’era post-influencer. #Deinfluencing era un trend che spopolava circa un anno fa e che conta oggi più di 56 mila video su TikTok: un’operazione in cui vari utenti provavano a convincere a non comprare, o ad acquistare prodotti più economici. Una contraddizione che però non deve stupirci: noi Gen Z siamo la generazione meno seria di sempre. A questa (tentata) sfiducia nei confronti degli influencer, si aggiunge lo scandalo più recente che ha coinvolto il brand Djerf Avenue dell’influencer Matilda Djerf, accusata di bullismo e body-shaming dai dipendenti. Il mestiere dell’influencer è delicato, non si è mai protetti da sbandamenti se non si è capaci di carpire in velocità lo spirito del tempo (non dimentichiamoci ad esempio delle accuse a Man Repeller, blog di Leandra Medine Cohen, ora creatrice di The Cereal Aisle). E il recente divieto di TikTok negli Stati Uniti di certo obbligherà ancora di più a ripensare le modalità con cui arrivare alle persone.
Il giornalista quindi sembra trovarsi in un impasse, ad una biforcazione tra lavoro per grandi testate, in cui la critica è malvista, e un accentramento dei lettori sulla propria persona, in dinamiche che prevedono necessariamente l’autopromozione, in un mondo però sempre più sospettoso nei confronti dei singoli che indirizzano il gusto e le opinioni delle masse.
Prima di iniziare a scrivere stavo ascoltando l’ultimo episodio del podcast brendawereness in cui l’autrice Brenda Weischer parla dei buoni propositi per il 2025. Fare propositi di solito mi riesce male, ma pensavo che quest’anno potrei concentrarmi e pensare a un modo per creare commons, o beni comuni, nella moda. Nonostante la privatizzazione e la frammentazione dell’informazione saranno inevitabili, dopo un periodo troppo lungo in cui abbiamo dato per scontate le migliaia di informazioni online e sui social (vere o false, indiscriminatamente), credo ancora che sia necessario pensare a modi per creare beni comuni.
Ricorda Geert Lovink quando nel 2002 teorizzava i digital commons: “information commons hold the shared history of our cultures, such as myths and folksongs. Information commons are unique, because as ideas are taken from them to provide inspiration, they are not used up. Those ideas remain for the use of future generations of creators”. E visto che questo è uno spazio digitale d’informazione mi sono chiesta come creare la mia città invisibile, l’esperienza che è esistita nel futuro che non è solo mia e legata a me. Per quanto dotata di un ego spropositato secondo molti, e a ragione, mi inquieta la vicinanza serrata tra opera e autore, una vicinanza che può scivolare con facilità nella corrispondenza soffocante, soprattutto nella nostra epoca di performatività. Come creare uno spazio intimo ma non privato? Non so se nel 2025 troverò una risposta, ma nel mentre vorrei chiedere aiuto a chi mi legge.
Qui sotto chi vuole può suggerirmi persone realtà cose da conoscere, per aiutarmi a pensare nuovi modi per non accentrare la critica sulla mia sola voce. Ho fatto una lista lunga di notizie sconfortanti, ma me ne aspetto una altrettanto lunga, di cose belle.
Grazie per riportare valore sul "bene comune"
Ti leggo sempre con piacere ✨🌞